domenica 1 maggio 2011

Il nocciolo della questione

Ho sempre odiato gli sprechi, fin da bambina: mia mamma mi racconta che, anche se non mi entrava più niente nello stomaco, finivo il cibo nel mio piatto sforzandomi pur di non vederlo buttato. Sono sempre stata affezionata alle cose, tanto da usarle fino allo stremo, e a dispiacermi di doverle buttare quando si rompono, come se invece che ad un paio di ciabatte sfondate stessi dicendo addio ad un vecchio amico.

Inoltre non sono mai stata un’amante delle mode, delle tendenze. Ho i miei gusti e non cambiano solo perché qualcuno ha deciso che adesso non sono più di moda. Inoltre mi sembra assurdo buttare soldi per comprare roba nuova quando quella vecchia va ancora benissimo. Rientra nel discorso del consumismo di cui parlavo qualche post fa. Per non parlare della superficialità di volere a tutti costi una cosa firmata perché “va”. La qualità è un discorso, sono disposta a pagare per un prodotto migliore. Ma non certo per farmi vedere in un certo modo.

Sarà questo lato parsimonioso del mio carattere, oppure sarà l’amore che ho sempre nutrito per la natura, gli animali, gli ambienti. Sta di fatto che mi sento molto coinvolta quando si parla di inquinamento, di utilizzo sconsiderato delle risorse, di produzione e di smaltimento dei rifiuti.
Ultimamente mi sono ritrovata a pensarci sempre più spesso: nel mio percorso di riflessione sul lavoro sono arrivata ad approfondire prima l’idea del downshifting e da lì quella di decrescita. Sembra strano ma è tutto correlato. Lavoriamo tanto perché dobbiamo guadagnare soldi, per comprare cose su cose. Tra l’altro, poi non abbiamo il tempo di godercele. Compriamo sempre più oggetti per sentirci felici, ma anche per sopperire alla mancanza di tempo: cibi precotti, porzioni monodose iperconfezionate… E pensiamo che un altro stile di vita sia impossibile.

E invece secondo me no. Certo non è immediato, siamo troppo ben abituati. Ma se continuiamo così prima o poi il sistema collasserà. A molti sembrerà stupido scegliere da soli di “limitarci” quando potremmo continuare a vivere come sempre. Forse a noi non accadrà nulla. Ma ai nostri figli, o nipoti? Abbiamo creato un casino su tutto il pianeta, mi sembra il caso di risistemarlo prima che sia troppo tardi. Anche se questo significa rinunciare ad una serie di cose.

Che poi, a cosa dovremmo rinunciare? Abbiamo davvero bisogno di tutto quello che possediamo, che acquistiamo? Sono per lo più bisogni indotti dalla pubblicità, dalla moda, dalla società dei consumi.
Oltretutto, non sono mica sicura che queste rinunce mi peggiorerebbero necessariamente la vita. Meno acquisti significa meno necessità di denaro, meno bisogno di lavorare, più tempo libero per me, per stare con famiglia e amici, per le cose che mi fanno stare davvero bene. Meno acquisti e più tempo libero significa che alcune cose si potrebbero (o dovrebbero) produrre da sé, e avrei dunque cibo più sano e gustoso, prodotti per la pulizia più naturali e non dannosi, vestiti fatti secondo i miei gusti e non secondo quello che decide la moda del momento. Col vantaggio di produrre molti meno rifiuti e inquinare meno.

Per alcuni, questo tornare a riempire il tempo di “compiti” di cui pensavamo di esserci liberati (le nostre nonne passavano le giornate a cucinare, pulire e magari coltivare qualcosa nell’orto) può sembrare un regresso, un peggioramento. Ma è poi molto meglio passare 8-9 ore al giorno chiusi in ufficio? Per lo meno cucinare e pulire lo farei per me stessa e non per il datore di lavoro! Anche se sono la prima a sorprendermene, credo mi piacerebbe dedicare qualche ora della mia giornata a preparare dei buoni piatti casalinghi o a curare qualche piantina nell’orto. Perfino a lavorare a maglia. E poi chissà, più avanti, a far crescere i miei bambini.
Tra l’altro, si accorda tutto perfettamente col desiderio che ho espresso nel post precedente, di una vita più tranquilla e naturale, con dei ritmi più lenti. E mi riporta indietro nel tempo a quando ero bambina, ma di questo parlerò in un altro post.

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